Conoscere il Comunismo (quinta parte): in Siberia

Ringraziamo il mensile “Chiesa Viva”, fondato dal sacerdote Don Luigi Villa e diretto oggi dall’Ing. Franco Adessa, che ci concede la possibilità di pubblicare i testi di una rubrica, che compare dal numero 448, a firma del Generale di Brigata Enrico Borgenni, già comandante della mitica Scuola Militare alpina di Aosta.
La deportazione siberiana è stata sempre rappresentata come un calvario di persone avvinte in catene, sottoposte alle vessazioni e alla frusta di guardiani aguzzini, votate a morte sicura nelle gelide steppe nevose; suscitava poi sorpresa e meraviglia il fatto che molti poi riuscivano sopravvivere e a tornare da quell’inferno bianco. Pochi quadri storici hanno subito una deliberata deformazione della deportazione zarista.
La condanna dei deportati comuni (non i criminali) consisteva nell’obbligata dimora, per qualche anno, in un villaggio siberiano, dove il reo aveva la possibilità di muoversi liberamente in un’ampia area definita e di fare tutto ciò che gli era più gradito, anche attività politica; gli era concesso di lavorare, di esercitare la sua professione o il suo mestiere, di andare a caccia e pesca, per cui gli era concesso anche il possesso di un fucile (con le relative munizioni) nonché di un cane!..Per di più, all’epoca della deportazione di Lenin, ogni condannato percepiva una paga statale di sostentamento di 8 rubli mensili, apparentemente misera, ma considerata dagli abitanti dei villaggi locali molto elevata. La Krupskaja, in merito racconta che, per Vladimir e sua madre, aveva preso in affitto un’intera casa con tanto di orto e frutteto.
Al deportato era proibito uscire dal territorio stabilito senza autorizzazione, norma spesso disattesa per sfuggire alla logorante monotonia della vita del villaggio, ma che, nella maggior parte dei casi, non comportava particolari conseguenze. I tentativi di fuga, invece, erano duramente repressi con il carcere nelle prigioni delle cittadine siberiane dove le condizioni di vita erano veramente pesanti.
In effetti, il vero scopo conseguito con la condanna alla deportazione, era di mettere per qualche anno gli intellettuali sovvertitori a contatto con il vero popolo che loro dicevano di amare così vivamente! Lo Stato faceva affidamento sulla provata indifferenza a qualsiasi forma di propaganda delle popolazioni contadine siberiane e che, come spesso accadeva, queste riuscissero involontariamente a “assimilare o trasformare” i loro involontari ospiti. Il capo del villaggio era preventivamente informato dell’arrivo di un deportato, a lui era devoluto il compito di riceverlo, sistemarlo, controllarlo, considerandolo come un dipendente stipendiato dallo Stato. Pertanto i deportati erano tenuti in alta considerazione, ricevevano doni e regali in natura, venivano accompagnati a caccia e a pesca; in particolare, quando questi fornivano consigli nelle controversie locali, o curavano gli ammalati se medici, divenivano vere e proprie autorità morali.
Verso la metà del 1898, l’avvocato Vladimir Ulianov giunse a Sciuscenskoje, sul fiume Jenissei, accolto come un alto funzionario dagli abitanti del villaggio; gli andò incontro una delegazione che gli offrì la tradizionale focaccia!..Prese in affitto una comoda camera con sevizio di pensione, fatto che suscitò meraviglia per l’enorme somma di denaro corrisposta.
Per la prima volta Lenin venne a contatto con il mondo contadino siberiano, ben diverso da quello della Russia occidentale europea (1). Mentre il contadino russo, pur affrancato nel 1861 dallo zar Alessandro II dalla “servitù della gleba”, costituiva la forza produttiva dei latifondi appartenenti per lo più alle famiglie nobili dell’impero, con un rapporto di lavoro (come si dice oggi) “ variabile “, che gli consentiva una vita modesta, il siberiano poteva ottenere e “possedere” tutta la terra che riusciva a coltivare!
Nelle vaste e fertili steppe gli spazi erano così immensi per cui non esisteva la corsa al possesso!..l’invidia e l’odio per il vicino erano sconosciuti!..Nel travaglio e nel duro lavoro quotidiano dei primi coloni, nella natura avversa per il clima era venuta una razza forte, agiata, rispettosa della proprietà, della stabilità e dell’ordine di un’autorità, anche se lontana, dello Stato.
Lenin, che aveva conosciuto solo gli antichi schiavi semitartari del bacino del Volga, rimase stupito di fronte a un popolo nuovo (i cui componenti erano soddisfatti del proprio stato), insensibile a qualsiasi rivendicazione, tanto più rivoluzionaria.
Cercò allora di costituire un circolo rivoluzionario con i numerosi deportati dei vicini villaggi sullo Jenissei, ma di fatto senza successo. I più si davano all’alcool, per cui Lenin li “declassava”, oppure, come si diceva all’epoca, “ritornavano a vita privata” abbandonando qualsiasi attività rivoluzionaria.
Durante i circa tre anni di permanenza nel villaggio siberiano, Lenin dispose di più tempo libero che non nel resto della sua vita; sedeva per intere giornate a scrivere innumerevoli lettere ai rivoluzionari di Mosca e di Pietroburgo, oppure chino sui libri, a tradurre in russo i vari opuscoli socialisti stranieri.
La monotonia delle giornate, anche dopo l’arrivo (giugno 1899) e il matrimonio con la Krupskaja, era interrotta dalle partite di caccia con i suoi amici contadini. Esercitò, nell’ultimo periodo, anche l’avvocatura, conseguendo ulteriore prestigio presso la popolazione, nonchè stima presso la locale autorità giudiziaria. Contrariamente a quanto effettuato da numerosi deportati, non tentò mai la fuga, per il timore delle severe punizioni alle quali si sarebbe esposto.
Al termine della deportazione, la principale preoccupazione di Lenin era “come” risollevare il partito dallo stato di decadenza nel quale era precipitato; l’idea divenne così assillante da procurargli insonnia e dimagrimento; elaborò un piano organizzativo che svilupperà poi negli opuscoli “Che fare?…”e “Lettere a un compagno”.
Nel marzo 1900 ebbe fine la sua deportazione e, dopo un lungo viaggio in “troika” (2) fino a Ufa, sul confine siberiano occidentale, salutata la moglie e la suocera, proseguì da solo per Pietroburgo e, in un secondo tempo, “per le eccessive attenzioni della polizia”, verso l’estero.
L’esperienza siberiana convinse Lenin che, mai avrebbe potuto fare affidamento rivoluzionario sulle popolazioni contadine, particolarmente, su quelle proprietarie della terra direttamente coltivata.
- Nella vicina “metropoli”di Minussin, viveva il noto (per quel tempo) rivoluzionario Arkadji Tirkov, che era stato uno dei partecipanti all’attentato concluso con l’assassinio dello zar Alessandro II.
(2) Grande slitta trainata da tre cavalli
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