Infallibilità della Chiesa e del Papa

Un testo di grande importanza per comprendere un tema da sempre dibattuto, di grande importanza per la vita della Chiesa
L’infallibilità di “Quanta Cura” e la fallibilità del Concilio Vaticano II
Il Concilio Vaticano I ha definito che “il Papa gode della stessa infallibilità di cui Cristo dotò la sua Chiesa” (DB, 1839), ma ciò non significa che vi sono due infallibilità: a) una della Chiesa, ossia i Vescovi (la Gerarchia), i Chierici e i fedeli (i subordinati) e b) l’altra del Papa; di modo da avere due Gerarchie parallele: il Papato e l’Episcopato. Invece vi è una sola Gerarchia: il Papa cui l’Episcopato è subordinato, la quale governa in cooperazione di subordinazione la Chiesa discente (Chierici e fedeli laici).
Infatti l’infallibilità data da Cristo (Causa efficiente prima – 1) alla sua Chiesa è una sola: quella esercitata da Pietro e dai suoi successori (causa efficiente seconda) e conferita loro da Gesù per il bene comune spirituale della Chiesa universale (causa finale – 2).
La prerogativa dell’infallibilità si dice data alla Chiesa poiché è stata largita per il bene comune della Chiesa, ma essa è esercitata dal Papa. La causa finale dell’infallibilità è il bene di tutta la Chiesa, ma la causa efficiente seconda – che la esercita subordinatamente a Dio sua Causa prima – è il Papa (3).
Per fare un esempio, la vita dell’uomo è una sola, ma pur derivando dall’anima, che è il principio della vita, si diffonde per tutto il corpo; così l’infallibilità è diffusa e circola per tutta la Chiesa docente (infallibilità attiva o in docendo) e discente (infallibilità passiva o in discendo), però essa deriva e dipende dal Papa come causa efficiente seconda subordinata a Dio (Causa prima).
L’Episcopato (successore degli Apostoli) non può esercitare ex sese il Magistero infallibile e neppure la Giurisdizione universale (su tutta la Chiesa) senza il Papa (successore di Pietro, Principe degli Apostoli); anche se per divina istituzione l’Episcopato fa parte della Chiesa gerarchica e docente, ma subordinatamente al Papa (“cum Petro et sub Petro”). Perciò la Chiesa non potrebbe sussistere senza il Papa e neppure senza l’Episcopato o i Vescovi residenziali (aventi Giurisdizione nelle loro rispettive Diocesi); ma il capo, il fondamento, la colonna della Chiesa docente e discente, gerarchica e subordinata è il Papa non l’Episcopato, che deve essere subordinato al Pontefice romano e che comanda (Imperium), istruisce (Magisterium), santifica (Sacerdotium) i Chierici/fedeli solo dipendentemente dal Papa. Per cui la definizione del Vaticano I non può essere intesa nel senso che la Chiesa, ossia l’Episcopato (i Chierici e i fedeli), dà al Papa il potere di Magistero e di Giurisdizione. No! Questo potere gli viene direttamente da Dio e – tramite il Papa – esso è trasmesso da Dio all’Episcopato. Perciò l’infallibilità (e il governo) data da Cristo alla sua Chiesa è una sola: quella esercitata da Pietro e dai suoi successori, che è conferita loro da Gesù per il bene della Chiesa universale (Episcopato, Chierici e fedeli laici). Quindi, l’infallibilità è diffusa e circola per il bene di tutta la Chiesa (Vescovi, Chierici e laici) come causa finale, però essa deriva e dipende dal Papa come da causa efficiente.
Il Pontefice romano può esercitare l’infallibilità 1) sia ex sese, infatti le sue definizioni sono infallibili e irreformabili (cioè non soggette a correzioni) anche senza il consenso della Chiesa; altre volte il Papa può esercitarla, solo se vuole e senza esservi obbligato (4), 2) attraverso l’Episcopato a) riunito in Concilio ecumenico (5), oppure b) disperso nelle Diocesi di tutto il mondo: Magistero Ordinario Universale (cfr. San Tommaso d’Aquino, Quodlibetum, 9, q. 7, a. 16; A. Piolanti, Dizionario di Teologia Dommatica, Roma, Studium, IV ed., 1957, pp. 214-215, voce “Infallibilità pontificia”; V ed. Proceno – Viterbo, Effedieffe, 2018).
Il potere d’insegnare anche, e non esclusivamente, infallibilmente, tramite il Magistero conferito da Cristo alla sua Chiesa come causa finale, ossia per il suo bene, risiede in Pietro e nei Papi (suoi successori) come nella sua fonte o causa efficiente seconda principale; mentre negli Apostoli e nei Vescovi (loro successori) solo subordinatamente al Vicario di Cristo, come cause efficienti seconde strumentali o subordinate al Papa (“cum Petro et sub Petro”). Quindi essa si diffonde in tutto il Corpo della Chiesa per il suo bene comune, derivando dal Papa e pure dai Vescovi, solo se il Papa li vuole unire a sé in virtù del Primato di giurisdizione, che ha ricevuto da Gesù nella e sulla Chiesa universale, non essendo necessitato a pronunciarsi collegialmente con l’Episcopato, come vorrebbe la teoria della “Collegialità episcopale”, la quale – diminuendo il Primato papale – tenderebbe a fare del Corpo dei Vescovi un’entità per la sua stessa natura sempre unita in atto al Papa, di cui il Sommo Pontefice avrebbe bisogno per esercitare il suo supremo Magistero e la sua Giurisdizione.
Regola remota e prossima della fede
La regola remota della fede è la S. Scrittura con la Tradizione (che sono le due fonti della divina Rivelazione), mentre la regola prossima della fede è il Magistero vivo della Chiesa (“vivo” significa che si trova nel Papa regnante, il quale essendo vivo può rispondere a coloro i quali gli chiedono delucidazioni sugli Atti del Magistero e non significa “in evoluzione oggettiva”. Per cui solo il Magistero è vivente, non la Tradizione apostolico/patristica, e la S. Scrittura – 6). Il Magistero risiede principalmente nel Romano Pontefice e strumentalmente o subordinatamente nei Vescovi sottomessi a lui (“cum Petro et sub Petro”), se egli li vuole associare a sé nella definizione dogmatica.
Il Concilio Vaticano I (sess. IV, cap. 4; DB, 1832) ha definito che il potere di Magistero è incluso nel Primato di giurisdizione del Papa (cfr. Pietro Parente, Theologia fundamentalis. Apologetica – De Ecclesia, Roma-Torino, Marietti, 1943; Id., Dizionario di Teologia Dommatica, Roma, Studium, IV ed., 1957, pp. 249-250, voce “Magistero ecclesiastico”; V ed., Proceno – Viterbo, Effedieffe, 2018).
Il Dogma
Il Dogma è una verità rivelata da Dio e contenuta nel Depositum fidei: Tradizione e S. Scrittura (dogma materiale) e poi definita e proposta a credere come necessaria per la salvezza eterna, quale divinamente rivelata o di fede (dogma formale), dal Magistero ecclesiastico con l’obbligo di credervi sotto pena di dannazione (Vaticano I, DB, 1800) (7). Pertanto chi nega o rifiuta l’assenso a una verità di fede definita dal Magistero è eretico e incorre ipso facto nella scomunica o anatema (8).
La Definizione dogmatica
La Definizione dogmatica è la dichiarazione o definizione della Chiesa su una verità rivelata da Dio e poi proposta obbligatoriamente a credere ai fedeli dal Papa per il bene della Chiesa. Il Romano Pontefice può scegliere di unire a sé nella definizione dogmatica l’Episcopato. Tale Definizione può essere fatta sia dal Magistero Ordinario (Papa che insegna in maniera ordinaria o non solenne quanto al modo, ma che obbliga – quanto alla sostanza – a credere una verità come rivelata da Dio e definita dalla Chiesa – 9); sia dal Magistero Straordinario o solenne quanto al modo (una dichiarazione solenne, al di fuori dell’ordinario o “extra-ordinaria” del Papa ex sese o del Concilio[1]). Tale Definizione dommatica si chiama pure dogma formale o verità di fede divino-cattolica o divino-definita.
«Generalmente basta la funzione del Magistero Ordinario a costituire una verità di fede divino-cattolica, vedi Concilio Vaticano I, sess. III, c. 3, DB, 1792 – 10» (P. Parente, Dizionario di Teologia Dommatica, Roma, Studium, IV ed., 1957, voce “Definizione dommatica”, V. ed., Proceno – Viterbo, Effedieffe, 2018). Attenzione però, se il Magistero Ordinario può definire infallibilmente un dogma formale, non significa che esso sia sempre infallibile e che ogni suo pronunciamento sia una definizione dommatica; lo è solo se il Papa vuole definire una verità come di fede rivelata e obbligare a crederla per la salvezza eterna (cfr. Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano, 1950, vol. IV, col. 1792, voce “Dogma” a cura di Cipriano Vagaggini).
La volontà di definire e di obbligare a credere
L’infallibilità (11) presuppone, infatti, da parte del Magistero la volontà di definire e di proporre obbligatoriamente a credere come dogma, una verità contenuta nel Deposito della Rivelazione scritta o orale. Per cui il Magistero è la regola prossima della fede, mentre Scrittura e Tradizione ne sono la regola remota. Infatti, è il Magistero della Chiesa (12), che interpreta la Rivelazione (Tradizione e Scrittura) e propone a credere con obbligatorietà, ciò che è contenuto in essa come oggetto di fede, per la salvezza eterna.
Costanza dell’insegnamento e infallibilità
Padre J. A. Aldama scrive: «Benché il Magistero Ordinario del Pontefice Romano non sia di per sé infallibile, se però [anche senza manifestare la voluntas definiendi] insegna costantemente e per un lungo periodo di tempo una certa dottrina a tutta la Chiesa, si deve assolutamente ammettere la sua infallibilità; in caso contrario, la Chiesa indurrebbe in errore» (J. A. De Aldama, Mariologia, in Sacrae Theologiae Summa, Madrid, BAC, 1961, vol. III, p. 418). In questo caso ci troviamo di fronte all’infallibilità del Magistero Ordinario per la continuità di uno stesso insegnamento. Il fondamento dottrinale di quest’infallibilità è quello indicato dal padre Aldama: se in una lunga e ininterrotta serie di documenti ordinari su uno stesso punto i Papi e la Chiesa universale potessero ingannarsi, le porte dell’inferno avrebbero prevalso contro la Sposa di Cristo. Essa si sarebbe trasformata in maestra di errori, alla cui influenza pericolosa e perfino nefasta i fedeli non avrebbero modo di sfuggire. Evidentemente il fattore tempo non è l’unico di cui si debba tenere conto. Ve ne sono numerosi altri. Secondo la classica formula di san Vincenzo di Lerino, dobbiamo credere a quanto è stato insegnato (infallibilità in docendo) o creduto (infallibilità in credendo) «sempre, ovunque e da tutti / quod semper, quod ubique, quod ab omnibus». Infatti l’assistenza dello Spirito Santo sarebbe manchevole se una dottrina insegnata/creduta “sempre, ovunque e da tutti” potesse essere falsa.
La 4 condizioni dell’infallibilità
La costituzione Pastor aeternus (DB, 1821-1840) del Concilio Vaticano I (18. VII. 1870) stabilisce 4 condizioni necessarie per l’infallibilità delle definizioni pontifice straordinarie o ordinarie (13). Essa insegna che il Papa è infallibile quando: «parla ex cathedra, cioè quando 1) adempiendo l’ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i Cristiani, 2) in virtù della sua suprema Autorità Apostolica, 3a) definisce una dottrina, che 3b) deve credersi da tutta la Chiesa, 4) riguardante la fede e i costumi».
I teologi sono unanimi nel vedervi la soluzione del problema delle condizioni dell’infallibilità pontificia. Pertanto le condizioni necessarie perché si abbia un pronunciamento infallibile del Magistero pontificio Straordinario o Ordinario sono quattro: 1) che il Papa parli come Dottore e Pastore universale; 2) che usi della pienezza della sua Autorità Apostolica; 3a) che manifesti chiaramente la volontà di definire e di 3b) obbligare a credere; 4) che tratti di fede o di morale.
Il punto cruciale del problema è nella terza condizione, e cioè che vi sia intenzione ά) di definire e β) di obbligare a credere. Come si manifesta questa intenzione? È fondamentale che sia chiaro, in un modo o nell’altro, che il Papa vuole definire (in maniera ordinaria o straordinaria) una verità da credere obbligatoriamente in quanto divinamente rivelata.
L’Enciclica “Quanta cura” è infallibile
Pio IX, tramite il Magistero Ordinario, nell’Enciclica Quanta Cura (8 dicembre 1864) prima condanna gli errori principali del suo tempo: la separazione tra Stato e Chiesa; il naturalismo; la libertà per le false religioni; la libertà di coscienza e di culto; la libertà di pensiero… Poi conclude scrivendo: «Pertanto, tutte e singole le prave 1) opinioni e dottrine ricordate in questa Lettera Enciclica ad una ad una, con la 2) Nostra Autorità Apostolica; 3a) riproviamo, prescriviamo e condanniamo e 3b) comandiamo, che si ritengano assolutamente come riprovate, proscritte e condannate da tutti i figli della Chiesa; 4) come Dottore e Pastore di tutti i Cristiani».
Come si vede papa Mastai in questa Enciclica del 1864, che fa parte del Magistero Ordinario pontificio, impiega le 4 condizioni dell’infallibilità, come saranno definite, 6 anni dopo, nella Costituzione Pastor aeternus (DB, 1821-1840) del Concilio Vaticano I (18. VII. 1870).
Infatti egli parla ex cathedra già nella Quanta cura, poiché 1) condanna errori contro la fede o la morale; 2) usando la pienezza della sua Autorità Apostolica; 3a) manifesta la volontà di definire (14) e di 3b) obbligare a credere; infine 4°) insegna come Dottore e Pastore universale.
Il Concilio Vaticano II non è infallibile
Il cardinal Joseph Ratzinger, divenuto nel 2005 Benedetto XVI, ha affermato: «Il Concilio Vaticano II si è imposto di non definire nessun dogma, ma ha scelto deliberatamente di restare ad un livello modesto, come semplice Concilio puramente pastorale» (card. J. RATZINGER, Discorso alla Conferenza Episcopale Cilena, Santiago del Cile, 13 luglio 1988, in “Il Sabato”, n. 31, 30 luglio-5 agosto 1988). Quindi è pacifico che esso non è stato dogmatico e neppure infallibile perciò può contenere degli errori senza ledere il dogma dell’infallibilità del Papa e della Chiesa.
Ormai e’ chiaro che i danni che si stanno procurando alla Chiesa oggi derivano tutti dallo strumento in uso della equivocita’! Non si lascia mai intendere se si parla ex cattedra o meno, sapendo benissimo, chi usa questo strumento, che tutto cio’ che giunge al popolo viene percepito come magistero infallibile con tutte le conseguenze del caso! Un esempio: quando il papa dice che Maria SS. non e’ sempre stata santa, si nega il dogma dell’Immacolata, ma nessuno lo accusa di eresia e il popolo accetta la cosa perche’ detta dal papa! E’ il papocchio venutosi a creare nei secoli, aggiungendo sempre nuovi anelli alla catena il cui peso finira’ per schiacciarci, se non si prenderanno provvedimenti!
Caro Antonio, scusa innanzitutto per il ritardo con cui ti scrivo.E’ necessario riflettere sul fatto che la dichiarazione di eresia (posto che sia canonicamente ammissibile) implicherebbe l’elezione di un terzo papa: l’emerito, colui che viene dichiarato eretico e il nuovo papa. Bisogne prestare molta attenzione a chi, all’esterno e all’interno della Chiesa, si muove solo con il proposito di distruggerla. Sono due facce della stessa medaglia.