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La setta dei Gesuiti

By Anonimous Vecchio e stanco
19 Giugno 2019
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Il 7 marzo 1975 si concludeva a Roma la contrastata 32^ Congregazione Generale dell’Ordine dei Gesuiti. Padre Pedro Arrupe condusse sino alla fine con tenacia, astuzia e duttile strategia quella travagliata assemblea generale confrontandosi con ostinazione, appena ammorbidita da una subdola e ipocrita umiltà, lo scontro con Paolo VI, il quale cercava di mantenere nel binario della tradizione e della dottrina i fini e i metodi di quell’Ordine fondato dal santo basco Ignazio di Loyola.  Di fatto fu lui, Padre Arrupe, il vincitore della schermaglia con Papa Paolo VI e con altri alti membri della Curia romana.  Da quel momento la Compagnia di Gesù non solo non era più al servizio del Papa ma navigava contro, se non del tutto palesemente, sicuramente in modo circospetto ma determinato.

 

Testo

 

L’approvazione da parte dei delegati della Compagnia dello scopo prioritario della sua missione, cioè di concentrare tutte le energie nella nuova missione di collaborazione nella liberazione dei popoli dall’ingiustizia e dall’oppressione socio-politica, mutava radicalmente la missione voluta da S. Ignazio. Se questa diventava la missione principale della Compagnia, anche la disciplina interna segnata dai quattro voti veniva ad essere compromessa. Quella disciplina severa, ma coerente, voluta dal fondatore era divenuta incompatibile con i moderni principi di eguaglianza e democrazia che una notevole componente della Compagnia, specialmente tra i giovani preti e tirocinanti, sentiva come oppressiva e mortificante.

Il problema era grave perché non soltanto di gradi e di gerarchia si trattava, ma della stessa obbedienza gerarchica come principio e come regola. Questa richiesta di maggiore eguaglianza era già emersa durante il Concilio Vaticano II allorché si riuscì a porre accanto al Padre Generale un “ concilio” di quattro assistenti eletti, il cui consiglio e consenso erano indispensabili per la decisione presa dal Generale. Ciò stava ad indicare che anche la disciplina interna della Compagnia o, se vogliamo, l’antica Regola, ne veniva modificata. Il principio di autonomia delle gerarchie e l’obbedienza stessa ad esse dovute veniva compromesso. Avvenne così, tanto per dare un esempio significativo, che la stragrande  maggioranza dei giovani preti optò per l’abito borghese bandendo la prescritta talare. Il mondo civile guardò con curiosità e stupore la trasformazione che, attraverso il cambio di quell’abito che aveva per quattro secoli sempre contraddistinto il gesuita da tutti gli altri consacrati. Un gesuita in borghese: che strano effetto! E poi, vedere questi giovani preti in borghese adottare  un acconciamento dei capelli e della barba molto alla moda, quasi una sfida al mondo clericale che si ostinava a mantenere l’abbigliamento, ormai in graduale abbandono, della talare e che non si piegava alla modernità del cosiddetto clergyman.

Avvenne nella Compagnia quel che era accaduto ai tempi dell’eresiarca Ario. Fu l’arrendevolezza della gerarchia, la cecità di non vedere le conseguenze, la irresolutezza a causare la frana. Paolo VI era forse il papa meno adatto ad opporsi a questa deriva così precipitosa di un Ordine che era stato per quattro secoli il baluardo di Pietro e della sua sede. Il suo carattere e il suo temperamento non erano adusi a prendere di petto i problemi e le nascenti opposizioni. Il mutamento repentino e vorticoso veniva così favorito dalla stessa incertezza del Papa e della curia e dalla pervicace arroganza di certe frange progressiste che si facevano scudo della nuova parola d’ordine ormai entrata nel lessico comune: lo spirito del concilio. Bastava questa frase pronunciata come un programma-bandiera, una parola d’ordine a rendere incerti e irresoluti coloro che avrebbero dovuto opporsi con decisione e fermezza. Perduta la Compagnia di difensori armati di fede e fedeltà perinde ac cadaver anche gli altri Ordini si sentirono come disarmati e tra le loro fila cominciarono numerose le diserzioni o il graduale scivolamento verso il Progressismo che, nel suo divenire, diventava sempre più orientato verso un radicalismo che induceva i pochi che resistevano a temere il peggio.

Lo compresero pienamente i due papi che successero a Paolo VI. Giovanni Paolo I aveva preparato una lunga e articolata Istruzione nella quale elencava tutte le storture dottrinarie e pastorali, nonché le violazioni disciplinari e di costume introdotte nella Compagnia. Avrebbe letto quella autentica reprimenda di fronte ai membri della Compagnia convocati per l’occorrenza di lì a pochi giorni.  Seppur apparentemente fragile e remissivo, Papa Luciani sapeva essere irremovibile e perentorio se si trattava di tutelare la dottrina e di dogmi. Ma la morte colse  Giovanni Paolo I il 28 settembre 1978, la notte precedente al giorno in cui avrebbe messo le carte sul tavolo e con una decisione e con una risolutezza che ben conoscevano coloro che avevano avuto a che fare con lui.

Giovanni Paolo II si servì di quelle pagine scritte dal predecessore per rivolgersi più volte alla Compagnia e, in più di un’occasione lo fece con particolare vigore prendendo, in conseguenza, severi provvedimenti. La Compagnia incassava e continuava a ignorare praticamente ordini e raccomandazioni. Era un mondo autonomo che andava per conto suo.

Ricordiamo il cipiglio e il volto alterato del povero Papa polacco mentre rampognava aspramente i due sacerdoti gesuiti (i fratelli Cardenal) che facevano parte del governo sandinista come rappresentanti del governo e che erano di fronte a lui con gli altri membri di quel governo. Ricordo l’espressione indifferente e irriverente di quei due sacerdoti gesuiti che non batterono ciglio, ma restarono ben stretti agli altri membri affrontando con uno sguardo assente e indifferente il sofferto e quasi sgomento  ed aspro rimprovero del santo pontefice.

Quei due sacerdoti non furono gli unici a sostenere e a compartecipare al governo popolare sandinista. Ce ne furono molti altri. Che cosa era avvenuto? La Compagnia aveva diffuso, in combutta con altri ecclesiastici di altre congregazioni del Sud America, la dottrina della Teologia della Liberazione.

In che cosa consiste questo tanto decantato tentativo di adombrare la dottrina millenaria della Chiesa Cattolica come più adatta ai tempi moderni e definito pomposamente col titolo di “Teologia” della liberazione? Ma Cristo non aveva forse liberato l’Uomo per sempre dal laccio del peccato e non con parole e proclami soltanto ma col suo stesso sangue e con la sua dolorosa passione e morte sulla Croce? Chi venivano a liberare questi nuovi esaltati profeti che inseguivano le idee imperanti nel mondo e che erano esse stesse testimoni viventi del loro fallimento con centinaia di milioni di vittime innocenti, con un particolare riguardo di atrocità per i cristiani?

Con la teologia della liberazione è il popolo stesso, che coincide con conciliare Popolo di Dio, che si fa guida e condottiero del riscatto, se occorre anche con le armi. E’ il popolo che deve conquistare i suoi inalienabili diritti di eguaglianza con l’abbattimento di ogni privilegio e pregiudizio. I due fratelli Cardenal, che erano membri influenti del governo sandinista, non facevano mistero di indottrinare le folle per questa rivoluzionaria trasformazione della fede cristiana. La fede in Cristo e nella sua dottrina doveva cedere il posto alla rivoluzione permanente del popolo in marcia verso mete che esso stesso, il Popolo di Dio, doveva volta per volta adattare alle esigenze del luogo e del tempo.

Questa teologia della Liberazione era un impasto sconclusionato di marxismo rivoluzionario e di evoluzionismo, Marx coniugato con la pseudo dottrina di quell’esaltato prete gesuita che aveva sposato con entusiasmo la teoria dell’evoluzionismo neo-darwinista. Quel prete si chiamava Pierre Teilhard de Chardin.

Ne era uscita fuori una teoria che faceva dell’Umanità la forza trascinante della storia verso una progressiva ed inarrestabile ascesa verso forme di eguaglianza e di progressiva democrazia, che già in nuce contengono di per sé l’eguaglianza più radicale come pure la forma di democrazia più estrema che è l’anarchia. La Teologia della Liberazione, in alcune sue frange, pensava che il Cristo Cosmico teilhardiano, quella strana specie di  guida necessariamente immanente dell’Umanità con la quale si identificava, si veniva realizzando continuamente e senza soluzione di continuità sino al raggiungimento finale della eguaglianza e giustizia. Una utopia del genere è quella che sembra ora inseguire la Chiesa cattolica a guida gesuitica.  Questa visione globalizzata generale che comprende la democrazia, l’economia, la popolazione e la libertà dell’individuo, di ogni individuo, quali che siano le sue tendenze e le sue aspirazioni, si coniuga tranquillamente con le teorie globaliste che trovano nell’ONU la loro più genuina espressione. Queste teorie richiamano alla mente le antiche teorie maltusiane che, in coerenza con la dottrina immanentistica  della evoluzione permanente, si sono ben presto avvalse delle moderne pratiche biotecnologiche spingendo i governi di tutto il mondo ad adottare le pratiche più spericolate e fantasiose sulla modificabilità della natura e della psiche umana, senza alcun riguardo per la dignità della persona umana e per la sacralità della vita.

Ma qual’ è la mente o le menti che hanno condotto l’Umanità a questo pauroso baratro cui si trova di fronte?

Questa mente ve ricercata in quelle personalità, non sempre rimaste ignote, che hanno cercato di rompere la compattezza della Respublica Christianorum medioevale che raggiunse, allo scadere del secolo tredicesimo, il suo massimo splendore e che improvvisamente, in poche e avventate manovre ben congegnate dalle menti che sostennero l‘attore di turno (Filippo il Bello), ruppero la sacralità delle istituzioni e dettero il via allo smantellamento della complessa ma ancora efficiente organizzazione medioevale, sbriciolandola in poco meno di due secoli sino alla frattura della rivoluzione luterana, la prima delle rivoluzioni che ha condotto l’Europa e il mondo ad un punto ove è messa in pericolo la stessa natura umana e, di conseguenza, la dignità e l’intangibilità di ogni persona umana.

Quelle menti e quelle forze, occulte e non, che cercarono di smantellare il capolavoro della storia umana che fu la Respublica Christianorum presero poi un nome: Massoneria, una associazione che nacque in certe cosiddette Accademie dell’Umanesimo e del Rinascimento italiano e che si sono poi moltiplicate e diversificate senza mai mutare la loro meta e il fine principale: rovesciare Cristo e innalzare l’Uomo. Sembra che ci stiano riuscendo, ma la partita è aperta.

Chi oggi difende la persona e la dottrina di Cristo con quella energia e con quella decisione che esse meritano?

Sembra quasi che tutto penda verso quello che ora sembra essere il pensiero dominante nel mondo e che è il pensiero della Sinistra. Una sinistra che ora sembra aver trovato un sostenitore inaspettato, la Chiesa di Roma, con il Papa in testa, che sostiene apertamente e con il supporto perfino di Esortazioni apostoliche, il pensiero corrente. Al giorno d’oggi sembra che si sia aperta un’intesa cordiale fra Santa Sede e Sinistra Mondiale. Quanti calorosi scambi di parole, quanti riconoscimenti reciproci, quante interviste benevolmente accolte e diffuse come oracoli divini!  Non mancano nemmeno le truppe d’assalto come certe correnti o certe camarille che albergano oltre Tevere.

Il popolo italiano, che sembra non essere della stessa pasta di quel popolo di Dio esaltato dalla Teologia della Liberazione, pare non starci a questa novità e, cosa grave e insolita per l’Italia, sta voltando le spalle al Papa. Ora il Papa va d’accordo col Governo europeo e contro i sovranisti (una volta si chiamavano patrioti ma oggi la parola Patria è bestemmia per certe orecchie) che sembrano volersi riprendere l’Italia. Ma il papa che c’entra in tutto questo? Eppure sembra volerci entrare e rimanerci. Il popolo italiano che non sembra sentire i richiami della Cei a voler ritornare fra il Popolo di Dio, obbediente e premuroso come era sino a pochi anni or sono, per ripicca si troverà obbligato a disertare sempre più la Casa di Cristo, la chiesa. Sono i pastori che lo cacciano non il gregge che se ne va.

Tutto perduto? Ma la Chiesa è di Cristo e non del Papa che ne ha l’obbligo di custodirla ( come gregge). Non si abbandonino le care vecchie nostre Chiese. Si sia forti e pazienti se dobbiamo convivere con certe stranezze e certe dissacrazioni. Ma quella è la nostra casa, quella che fu dei nostri nonni e bisavoli. Non abbandoniamola! Sacrifichiamoci ma non lasciamola del tutto in mano ai dissacratori!

Siamo certi che  non vinceranno! Cristo tornerà a trionfare preceduto dal gioioso sorriso di Sua Madre che aprirà le porte senza sparare un colpo.

Post Scriptum: con quanta amarezza e sgomento ho dovuto scrivere dei e sui Gesuiti. Ricordo ancora la Cresima ricevuta alle Cappellette di S. Ignazio nel 1949! Il pomeriggio precedente ero stato confessato da quel sant’uomo di Padre Cappello che, dopo avermi chiesto da quanto tempo non mi confessassi, mi elencò con precisione le mancanze  fatte lasciandomi a bocca aperta per poi dover dire di si al Padre se corrispondeva al vero quel che aveva detto. Altri tempi, altri Gesuiti, anche santi.

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