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Home›DE ECCLESIA›Tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto

Tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto

By La Redazione
6 Febbraio 2020
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Proviamo a rileggere il bellissimo testo del capitolo 8, versetti 18-26, della Lettera ai Romani di San Paolo. Facciamo riferimento alla traduzione del 1974. Più fedele di altre.

La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; 20 essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza 21 di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. 22 Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; 23 essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. 24 Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? 25 Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza.

Un recente saggio su questa “attesa della rivelazione dei figli di Dio” esordiva asserendo di come nel merito san Paolo fosse <<estremamente chiaro>> ….e però anzi concludeva, quel saggio, attestando non poi proprio con gli stessi toni che, nel medesimo riguardo, <<come si vede, il mistero è insondabile e il mistero è grande ed è inutile intestardirsi a cercare di carpirne qualche indizio, qualche spunto per tirare ad indovinare qualcosa. Questo qualcosa non potrebbe che essere inutile se lo stesso S. Paolo ci spronò a vivere secondo Cristo e a seguire Lui soltanto>>.

Ma e così, nell’insieme, ce ne viene piuttosto dunque da pensare che forse quello che Paolo intendeva, non lo era poi così chiaro e ovvio ma…e nemmeno poi così oscuro da far anzi desistere dal cercarne un senso meno confuso!

Una precomprensione diffusa su questo testo è che la creazione di cui si parla riguardi il creato materiale visibile e soggetto all’uomo: anche il saggio sopra menzionato sottende un tale assunto, come poi sterminate altre riflessioni moderne sullo stesso punto. La mente moderna stenta ad articolare una argomentazione metafisica razionale circa la dimensione creaturale invisibile. O parla di Dio stesso o parla del mondo umano. Degli spiriti o tenta di considerare gli aspetti in certo modo anch’essi infraumani, ossia gli influssi demoniaci degli spiriti decaduti, o si limita ad afferire agli ambiti degli spiriti celesti con un approccio sentimentale pietistico che non li riguarda in modo intrinseco sul piano ultimamente salvifico, ma appena li rammenta quali metafore trasparenti dell’agire direttamente divino. Approcci certamente legittimi e tuttavia forse non esaustivi perché per nulla analogici.

Tutto questo potrà però forse aiutarci ad ora infine comprendere le nostre consuete difficoltà ad accostare correttamente il significato di questo brano di san Paolo.

In effetti, alcune motivate paure presiedono alle suddette titubanze a considerare seriamente sul piano essenziale salvifico il ruolo degli angeli: il vangelo ci fa presagire un destino di possibile eccellenza dell’umano in Cristo, e dunque ne avvertiamo di non poter considerare in alcun modo gli spiriti celesti come idolatricamente preordinati a quella somiglianza divina che proprio nell’incarnazione umana di Cristo trova il suo senso ultimo. Questi eccessi di prudenza, però, rischiano poi di non contemplare il caso in cui la rivelazione stessa di Dio ci mostri come i medesimi angeli, colti in tutta la loro dignità, possano e anzi debbano, esservici anche riscoperti nell’esserne proprio loro poi indirizzati e configurati al disegno di glorificazione ultima dell’umano. In tal senso diventerà magari non solo ammissibile, ma e anzi confacente, che il nuovo Testamento parli infine degli spiriti celesti come elementi semmai allora significativi ed essenziali di quel disegno di glorificazione ultima della dimensione umana che traccia la cifra del senso del piano salvifico. E di fatto, tutto ciò il nuovo Testamento davvero anzi lo mostra!

Per esempio, san Pietro nella sua seconda lettera (1,12) parla di quelle cose che ora vi sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato il vangelo nello Spirito Santo mandato dal cielo; cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo. Si tratta dell’adempimento del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio, creatore dell’universo, perché sia manifestata ora nel cielo, per mezzo della Chiesa, ai Principati e alle Potestà la multiforme sapienza di Dio, secondo il disegno eterno che ha attuato in Cristo Gesù nostro Signore, di cui così leggiamo nella lettera agli Efesini (3, 8-11).

Ed insomma, per mezzo dell’umanità apostolica della Chiesa venne rivelato agli angeli quel mistero nascosto dall’origine del piano divino in cui intanto essi angeli proprio desiderano fissarvi, allora, lo sguardo.

Cosa ci dice tutto questo? Non ci troviamo nessuna attinenza con quanto Paolo stava dicendo circa quell’attesa ardente nutrita dalla “creazione”?

Del resto, parlare solo dei demoni decaduti, degli angeli custodi intesi in senso appena mondanamente funzionale, per non dire poi degli enti materiali animati e non, implica in fondo una disparità destabilizzante nella percezione della dimensione creaturale dove quell’eccellenza ultima dell’umano che vi ci debba essere comunque riscontrata non potrà che esservi percepita come una sorta di ingiusta coartazione dialettica ad un umano appena autoreferenziale la quale, poi, e non si capirà come debba allora essere semmai infine risolta: se non dunque magari ammiccando a quell’animismo palingenetico che non trova tuttavia allora fondamento nella rivelazione biblica. A meno, appunto, di non fraintendere proprio questo brano di Paolo che veniamo considerando.

Un modo meno disturbante di impostare il problema sarebbe invece quello di considerare rettamente quel posizionamento di essi angeli per cui poi questi e ne sappiano allora porsene sul piano escatologico, ultimo, quali anche che intermedi, rispetto perciò poi ad una gloria dell’assunzione dei risorti colti che questi rispetto al deterioramento dunque della condizione demoniaca. Altrimenti, se ne finisce inconsciamente o meno di vagheggiare sempre di più una sorta di aberrante <<apocastasi>> degli <<animali>>, in sintonia poi dunque con quella idea di interdipendenza generalizzata tra esseri creati che presuppone che tutta la realtà creata debba come tale essere resa permanente come cioè che poi il suo principio creatore ne avesse trattenuto un suo bisogno di tale indistinto ritorno totale in sé degli enti creati quale che anzi e lo escludesse poi tutto quindi, l’annientamento di cui ce ne invece parla il Vangelo, e quale che esso garantisce allora anzi, la trascendenza, del Dio creatore, e così poi delle stesse sue creature che vi siano però allora quelle gratuitamente infine chiamate a così perciò condividerla, davvero poi la sua gloria. Altrimenti, si rischierà persino proprio di poi anzi assolutizzarvene, l’Amore, quale indistintamente principio sempre divino: come se l’Amore cioè fosse Dio e non invece Dio (anche) Amore. Laddove pur esiste, invero, un amore anzi divino che è eterno e, poi però e anche, un amore allora non più invece divino che infine è invece destinato a vanificarsi e a mostrarvisi proprio esso sorgente di quanto che ve ne verrà a pur essere mistero allora di iniquità dunque, nella concupiscenza tutta già poi autarchica.

Sperando di aver già sgombrato un poco il campo dalle pregiudiziali che potevano sembrare scontate e che di solito inquinano l’accesso al nostro testo paolino, proviamo allora a leggerlo più direttamente, questo brano.

“La creazione stessa”, è un’espressione che ci riporta al senso biblico del termine creare, il quale non significava ancora, di suo, come poi invece avverrà nella successiva semantica ecclesiale, genericamente l’azione con cui Dio faccia essere dal nulla anche e proprio le cose mondane materiali. Per esempio, nel racconto della creazione del libro della Genesi, alla lettera si dice che Dio creò in principio il cielo e la terra, e poi si prosegue dicendo che le fece tutte le sue opere via via più mondane. Tanto che quel cielo e la terra che si dicono come tali creati quasi prefiguravano piuttosto le persone stesse divine che vengono generate e non emanate fuori di Dio. Mentre tutte le opere effettivamente “prodotte” alla lettera si dice che erano appunto “fatte”, come già la luce, e gli astri, e via via le opere (come diremmo noi oggi, le “creature”) terrene. Ossia, riecheggiando la lirica stilnovista che parlando della Vergine dice del “creator che si fece sua fattura”, per ricalcarne in una la terminologia pur anche neotestamentaria dovremmo allora semmai parlare di fatture quando indichiamo estesamente tutte quelle più infime opere divine che oggi chiameremmo sempre comunque, creature.

Parlare poi qui di una creazione “stessa” ci richiama inoltre ad una creazione colta allora proprio nel suo specifico di entità tutta spirituale, anche molto vicina alla fonte stessa che la crea, e non invece intesa in un senso semmai allargato ed estensivo che comprendesse via via tutta l’opera universale anche materiale mondana di Dio. Nella lingua dell’epoca apostolica creare significava dunque generare e istituire in un senso prettamente spirituale, come quando si incaricavano le magistrature sacre. Come sino ad oggi è sopravvissuto l’uso di dire che si “creano” i cardinali quando appunto li si insigniscono.

Bene. E poi, tale creazione dunque tutta spirituale e autorevole si dice che attende con impazienza. Questo fa il paio con quanto si dirà poco dopo, ossia che noi aspettiamo l’adozione a figli, e che la attendiamo con perseveranza giacché intanto ancora non la vediamo. Mentre infatti, quella creazione attendeva con impazienza proprio la rivelazione medesima di noi “figli di Dio”.

Dunque, ad un attendere con impazienza da parte di quella “creazione stessa” corrisponde l’aspettare con perseveranza degli umani prescelti quali figli di Dio. Dove poi l’esservi “adottati” significava l’essere eletti e un divenire figli di Dio preferiti quali eredi. Siamo rigorosamente dentro la teologia e il linguaggio paolini. E quindi, a così aspettare qui poi con perseveranza ciò che ancora non “vedono” sono invece degli umani figli di Dio prescelti ed eletti, e spiritualmente quindi iniziati. Dei discepoli dunque, e non certo degli esseri semmai umani ma in qualche modo ancora spiritualmente involuti. Eppure questi discepoli prescelti devono accontentarsi di aspettare con tutta la perseveranza ciò cui quella creazione attinge nell’impazienza di quel suo attendere che allora indica anche un prendersi cura di qualcosa che è già presente ma che in qualche modo non ti appartiene pienamente. Dove invece il nostro aspettare qui significa proprio pazientare nel prospettarsi qualcosa di più lontano e futuro che però poi si potrà possedere più pienamente. E infatti, si diceva che quella creazione attende con impazienza non tanto nel senso che quella intanto aspetti, ma e proprio come a dire che non aspetta affatto, ma che anzi si protende qui e ora nella ricezione però dunque anticipata di essa rivelazione dei figli di Dio. E il margine di significato che qui pur comunque indichi tensione insoddisfatta allora non vi significherà quindi aspettativa temporale, ma limitazione sostanziale della fruizione di ciò che comunque sia già intanto in atto.

Non serve qui poi insistere nel dire che il vedere che è poi invece l’aspettativa di quei figli di Dio, di <<noi>>, non vi sarà un guardare estetico ma proprio il possesso più pieno della beatitudine della comunione intima con Dio.

Domandiamoci: se l’oggetto beato di un tale vedere è l’obiettivo comune sia di quella creazione che vi attende con impazienza e sia di quei figli di Dio – di noi – che l’aspettiamo con perseveranza, perché il possesso e la fruizione di ciò che per quella creazione avviene dunque già ora, sarebbe allora intanto minore di come invece poi avverrà per noi?

Facciamo a riguardo un paragone, per anticipare il responso. Domandiamoci, perciò anche: le anime, di quelli che sono morti santamente, le quali in effetti già ora vedono Dio, come mai ne avranno un incremento di beatitudine con la resurrezione finale della carne e la riassunzione dei loro corpi?

In effetti avviene che i corpi spirituali che già ora sono le anime sante, tuttavia vivono come nell’estasi di una comunione dei santi in cui la loro appropriazione personale è come sospesa.

I maestri antichi dicevano che le anime sante, i corpi spirituali, prima della resurrezione anche finale non sono proprio persone individue ma piuttosto sussistono come semi-persone. Perciò, queste semi-persone vedono esse effettivamente Dio in modo già essenziale, ma intanto sono ancora come fuori di se stesse. Hanno acquisito la visione essenziale di Dio sul piano oggettuale, ma nel contempo hanno come che perso nel frattempo se stesse, in attesa di ritrovarsene pienamente sul piano personale individuo nella risurrezione che sia poi anche finale.

Dunque, tali anime beate ve le si potevano intanto esse dire in certo senso distaccate dai propri corpi spirituali, dopo la morte e, prima del giorno ultimo, non poi nel senso che lo avessero perso un proprio vecchio corpo materiale animale da così intanto tendere a riprendersene uno poi equivalente, ma, e nemmeno, perché proprio ve ce ne stiano dunque tutte anzi divise, da se stesse, ma allora nel senso che pur essendosene già disvelato il loro corpo spirituale – il loro stesso essere – nella qualità celestiale della relazione con Dio ve ne risultano in qualche modo però ancora distanziate da questo loro stesso essere ebbene nel loro rapportarsi intrinsecamente con se stesse che ancora non è perfetto perché ancora non comporta una separazione assoluta da ciò che in qualche modo sintonico non lo sia a ciò cui pur ormai si rivolgono.

Prima della resurrezione perciò non è del tutto corretto asserire che i morti santi vedano Dio, perché sono le anime di essi morti santi che Dio lo vedono, ma entro di quell’estasi che appunto quasi le porta poi fuori di sé in una fase in cui se già godono della piena apertura verso Dio ancora però non vantano l’assoluta separazione dal mondo che permetterà infine loro di potersi invece svelare pienamente a se stesse e ricomprendersi nella propria piena identità ultimamente risorta. Infatti se mentre non si realizza ancora l’assoluta separazione, anche, infine mistica, dal mondo, queste anime si ritrovassero pur già pienamente in se stesse, profanerebbero la visione di Dio con l’imperfezione maligna che indirettamente così ancor rifletteranno.

Qui qualcuno si chiederà: ma come faranno i risorti dopo il giorno ultimo ad essere più separati dal mondo “invecchiato” nel male di quanto già non lo fossero i loro corpi spirituali, le loro anime, nella comunione dei santi? La risposta risiederà nel motivo stesso per cui si potrà parlare di una loro presenza in un “nuovo cielo” dopo la distruzione dell’universo attuale, del nostro tempo. Qui sta il punto. Gli esseri umani, a differenza di tutti gli altri esseri spirituali, a differenza di tutte quelle che possono anch’esse essere indicate come creature nel senso letteralmente biblico del termine, e a differenza perciò di tutte poi le forme di angeli, dopo che essi stessi umani sono creati, non solo appena per un istante dunque ve ce ne rimangono in quella che anzi è poi la loro vita terrena ben allora totalmente essi quindi come immersi nel tempo, e, pressoché dunque come degli esseri anche appunto materiali: con tutto quello che ciò comporta di limite, di sofferenza e di umiliazione. E tuttavia proprio questa loro radicale temporalità e storicità che li fa radicare così tanto in quella che sia la loro condizione attuale e presente – ma e presente poi nel senso dello scorrere incessantemente nel passato che intanto li distolga da quanto sia oltre ed eterno – fa allora sì che gli umani non saranno mai comunque atemporali nel modo in cui esperiscono di esserlo gli angeli. Gli angeli, da dopo del primo momento in cui siano creati, vivono costantemente nella simultanea compresenza di un tutto, in una dimensione sinottica. Essi si rapportano con l’oggi del nostro mondo non entrando davvero nel nostro tempo attuale, ma come lasciandosene intanto “affezionare” standosene già e poi sempre nella loro compresente perennità. Si rapportano col nostro mondo standosene come da lontano, ma, ed è qui infine allora il punto, restandosene poi allora sempre nella persistenza perenne di una pur così lieve e fievole afferenza.

Gli angeli oggi si rapportano minimamente con il nostro mondo, e però non smetteranno mai e poi mai di farlo. Per loro, il nostro mondo non finirà. Già ora essi lo vivono già come pure dal futuro, e tale percezione di sbieco, che essi attingono dalla loro stessa visione immediata delle cose divine, però come tale non passerà comunque poi mai.

E questo, a differenza di quanto non accada per Dio. E questo è decisivo.

Dio, è detto, ha gli occhi così puri che non può vedere il male. Assolutamente. In effetti poi non è che Dio non sappia e non voglia ciò che accade anzi nel modo più completo: ma gli è che tuttavia ciò dunque e lo fa sempre allora sobbarcandoselo in una data Persona trinitaria cosicché, comunque e poi inoltre in Lui stesso misteriosamente se ne poi consente di quindi a sé riservarsi uno spazio sempre invece alteritario di riservatezza ancor infine assoluta nel modo allora più reciso dunque non interpellato da, poi e qualunque, imperfezione anche allora e minimale e, lontanissima.

Tale via uscita come attraverso del “gioco delle tre carte” pertiene a Dio ma non agli angeli. Mentre paradossalmente in qualche modo può infine però appartenere anche proprio all’uomo, in Cristo, proprio declinando in modo salvifico e glorioso l’enigma “trinitario” dell’avvicendarsi ebbene del tempo. Come cioè se l’essere umano, accettando di scivolare costantemente nel passato sobbarcandosi intanto tutto il peso della storicità, pertanto, in questo mondo, possa allora però sperare di poi rilanciarsi pur dunque radicalmente in una paritetica storicità questa volta però proiettata in un futuro assoluto che infine anzi non trattenga e non ne riservi più alcun legame atemporale e compresente con il mondo attuale che ancor poi esprimesse un qualche nesso col peccato. Il mondo odierno, per l’essere umano, veramente finirà. Certamente almeno per quelli che risorgeranno come riscattati: rimarranno solo tutti gli atti di vera e divina carità, che meritino di essere intimi a Dio stesso nel suo più profondo mistero.

Ma allora, in questa loro assoluta proiezione avveniristica che veramente li riscatti da ogni qualsiasi residua compresenza atemporale verso qualcosa di anche obliquamente ancora mondano, ecco che gli umani risorti, quei famosi “adottati a figli di Dio”, in tal modo acquisiranno una sublime dignità nella loro conformazione a Cristo che li renderà migliori degli altri spiriti celesti, degli angeli, che nella vita presente pur stati lo erano, a loro e tanto, superiori.

Mi adesso scaturisce la domanda infine decisiva. Ma perché dunque gli angeli santi hanno fatto bene a non essere invidiosi dei figli di Dio, di quanto quelli erano destinati a dover poi essere, mentre invece comprensibilmente invidiosi apparentemente anzi e lo erano stati, allora i demoni?

Dalla benignità verso gli umani mostrata dagli angeli santi si ricava per essi appena un vantaggio rimarcato magari meschinamente e negativamente solo poi in quel sottrarsi al depauperamento pur subìto degli spiriti ribelli che in termini assoluti non avrà allora poi esso comportato alcun incremento invece positivo alla loro dignità e beatitudine, oppure quella loro determinazione originariamente benevola è pur motivata da una accettazione invero positiva di un maggior bene anche proprio poi per essi?

E dove risiederebbe il vantaggio che gli angeli santi hanno positivamente avocato a sé nella loro suddetta scelta di benignità?

Ebbene, gli angeli hanno ottenuto di poter godere presentemente, da subito, della fruizione almeno indiretta e condivisa dello specifico di quella beatitudine piena che gli uomini santi vivranno nel futuro assoluto della loro risurrezione ultima.

Ricordate quando dicevamo che le anime beate, nei loro corpi già spirituali ma non ultimamente risorti, godono per così dire non ancora esclusivamente, anche se già pienamente, della visione beatifica?

Ecco, esse vivono questa condizione transitoria che intanto è totalmente migliore di quella che era stata la loro vita terrena passata, ma, che ancora non lo è così perfezionata e consumata quale lo sarà nel futuro della loro ultima resurrezione pur cioè allora godendone, poi già ora esse, dell’estasi semipersonale della visione beatifica che per esse è piena ma, e che non lo è ancora per le loro vere e proprie persone quali che esse nel passaggio ne sospendono di nitidamente intanto ed esserle.

Ossia, le anime sante prima dell’ultimo giorno già vedono Dio, ma, ancora, per loro, il mondo non è completamente passato: così come, in termini poi assoluti, proprio e non lo sarà poi mai per gli angeli.

Tuttavia, le anime sante, sia pure in quel modo dunque estatico, già ora, dopo la morte, vedono in Dio la loro beatitudine e perciò inoltre godono, già ora, per quanto in quel modo quasi intanto impersonale, della futura piena e assoluta beatitudine che loro stesse persone vivranno nei loro corpi risorti finalmente riassunti proprio infine da loro, in quelli allora che saranno i loro corpi veri, che saranno veramente i corpi glorificati loro, di loro, nella somiglianza divina più perfetta.

Ed ecco, anche tutti gli angeli, già oggi, attualmente, e: loro poi anche sempre, ne godono obliquamente ma intanto dunque anticipatamente rispetto poi al limite della nostra attuale aspettativa di creature storiche nel mentre ancora attualmente terrene, di quella nostra beatitudine di futuri adottati a figli di Dio quali che poi anzi godremo in un modo sostanzialmente infine pur superiore a quanto già, e, sempre intanto, e di ciò ne possano pur sempre invece anticipare, ma, e non mai poi e consumare, gli angeli santi stessi poi e medesimi.

Riprendiamo allora, la lettura. La rivelazione dei figli di Dio riguarda dunque il vantaggio futuro della consumazione del secolo di cui godranno i risorti ma che gli umani terreni ancora neanche indirettamente esperiscono, ma, solo possono aspettarlo con perseveranza mentre che gli angeli invece già e poi sempre possono obliquamente ben allora anticiparlo e intenzionarlo, sebbene non potranno poi mai realmente pure e anche immedesimarlo.

Quella <<creazione>> poi è stata sottomessa alla caducità nel senso allora appunto che sia pur indirettamente, a differenza poi allora ultimamente di Dio, comunque, intratterrà sempre una afferenza almeno fievole ed obliqua non mai eliminabile con il mondo attuale di cui in qualche modo si prende remotamente cura. Pensiamo alla missione dei nostri angeli custodi. Ma, alla nostra presente caducità è stata sottomessa anche poi nel senso che tale caducità per noi infine sarà un possibile vantaggio perché potremo con essa lasciar cadere ogni residua e minima afferenza con l’imperfezione; e in tal senso questa caducità, intensa positivamente come venir meno di ogni male, sarà allora il segno di una finale superiorità dell’umano rispetto all’immutabilità angelica e, così dunque, una <<sottomissione>> di essa creazione angelica alla condizione cristologica umanamente gloriosa.

Perché poi la creazione (appunto, angelica) alla caducità sottomessa lo è non per suo volere, ma, per volere di colui che l’ha sottomessa?

Perché gli angeli lo hanno accettato, sapientemente, di obbedire al disegno salvifico che Dio ebbe circa la glorificazione della sua Immagine nell’umano, e, quindi, risultano sottomessi solo minimamente alla caducità: e poi, nella misura cioè appena del sapiente disegno divino; e allora anzi non gliene risultano di più poi pesantemente soggiacenti, come, invece, capitato lo è allora ai demoni, che dunque per colpa loro e per la cattiva loro volontà del momento originario ve se ne sottopongono ancor quindi maggiormente ad essa dunque afferenza obliqua e remota alla caducità mondana, proprio poi anche per l’esercizio dell’odio con cui si impicciano già anche e a loro danno nei fatti e nei limiti pur troppo umani.

Poi, la speranza in cui siamo salvati nel mezzo della nostra vita, anche si incontra con quella speranza che loro, gli angeli, realmente nutrono nell’istante solenne della loro destinazione inesorabile nel guardare intanto già da allora, al tempo di quelli che poi saranno stati i nostri atti storicamente salvifici.

Ma inoltre, soltanto la creazione “stessa”, che è quella angelica e non quella poi demoniaca, poi allora nutre quella speranza, adesso e, sempre, del costantemente attualizzare l’accezione obliqua alla gloria futura e indicibile della condizione cristiana: la speranza di questa nobile creazione non è dunque solo una imprecisata ardente aspettativa, ma proprio l’equivalente della virtù teologale umana della speranza, che negli angeli infine non vi esprime il limite della precocità presente nella storicità umana di un’attesa, ma esso limite, invece, dell’atemporale immutabilità di una sempre inattinta quasi-perfezione riguardo dunque alla loro complicità con l’umano nella conformazione a Cristo.

Da cui, la metafora teologale della speranza che umanamente indicherebbe intanto in parallelo la condizione comunque penultima, rispetto allora alla consumazione della poi piena comunione infine dunque nella carità.

La suddetta creazione, allora, nutre la speranza di essere pur così liberata dalla schiavitù della corruzione, proprio perciò addentrandovici apparentemente e di più in quella libertà umana che però allora e non le sia poi solo fonte della sua sollecitudine verso essa presente caducità, ma anche e di più l’anticipazione inoltre dunque intenzionata in questa nostra libertà pur umana di quanto che proprio questa, infine, anzi prepari, della gloria quindi futura di “noi” figli di Dio.

Il gemere e soffrire poi le doglie del parto poi qui non dovrà neanche metaforicamente esserne riferito alle sofferenze e agli affanni direttamente materiali degli enti corruttibili, perché infatti vi viene ricondotto poi subito anche alla dimensione umana solo per quanto attiene alle sue dimensioni più moralmente sublimi e spirituali, nominate quali primizie della redenzione.

Si tratterà perciò di una metafora del travaglio del parto che attiene alla creazione angelica proprio per tutto quello che abbiamo detto finora: questa, partecipa di una sottomissione intenzionale e metafisica alla nostra presente caducità, ma poi attinge alla gioia conseguente al successivo parto in un modo diverso da come la conseguono i <<figli di Dio>> ; gli uomini santi aspettano con perseveranza in ultima analisi prima la morte, ma tanto di più poi la resurrezione finale, <<passando>> così da un passato del travaglio ad un futuro del parto riuscito, mentre, intanto, gli angeli attendono anzi con impazienza, vivendola dalla tanto più lontana immutabilità inalienabile d’una loro affezione atemporale la flebile ma inesorabile condizione di quel loro travaglio per la sollecitudine che si fa intanto sottomissione spirituale alla vicenda della caducità sostanzialmente umana, quella anticipazione dunque della gloria ultimamente cristologica che a loro pertiene attingere in modo privilegiato anche se sempre poi ancora inevaso nel presagio poi allora che essi cioè proprio e preludono e premettono nel centro tanto di più perciò temporale umano che è la primizia della redenzione in cui ora i figli di Dio senza ancor intanto e avvedersene tutto ciò pretedeterminano nella libertà storica del loro agire che non sussiste solo istantanea, ma, e che poi si protrae addentro dell’esistenza loro terrena.

La creazione di cui qui Paolo parla, che nel testimone latino poi risuona proprio <<creatura>>, e non <<creatio>> , rappresenta davvero il suo disegno sugli angeli con riguardo alla centralità universale della vicenda cristologica. Proprio non è “il creato”. No.

Sarebbe bello che smettessimo universalmnte di bestemmiare, che non continuassimo a voler qui disperatameente vedere cani e porci, con tutto il rispetto per tali “creature” di Dio, in questa che è la Creatura di Dio. Che è la Creatura stessa.

Infatti è questa creatura <<tutta>>, cioè nella comunione del coinvolgimento elettivo nella concentrazione cristologica, che così essa geme e soffre nelle doglie del parto: dove la singolarità unanime di questa “creatura” che è la comunione dell’alba della creazione che traspare nel lineamento concertato delle creature angeliche volte alla lode della gloria del Signore, è allora il riflesso originario di quella decisione di adorare e servire in cui essi, i potenti spiriti celesti, da allora riverberano l’impronta di quella creatura che nasce unita a Dio e ridiventa poi tutta ancor e poi Dio quale Spirito datore di Vita.

Le altre ipotesi di lettura secondo una accezione forzatamente materialista ecologica, per quanto pervicacemente insistite e abusate, ne risultano destituite anche infine di quella residua fondatezza che sola sarebbe potuta per assurdo ancor poi derivarne non altro che da una supposta assenza di una qualsiasi meno che inverosimile alternativa spiegazione di questo testo.

Che invece trova esso piena luce se lo leggiamo secondo le categorie integralmente evangeliche che sapevano essere, anche, metafisiche, e non solo oppositivamente o materialiste o divine tutte trascendentali come lo sono quelle invece del nostro pietismo più recente.

Come sta scritto,

Voi infatti non vi siete accostati a un luogo tangibile,

Voi vi siete invece accostati al monte di Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti iscritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti portati alla perfezione, al Mediatore della Nuova Alleanza e al sangue dell’aspersione dalla voce più eloquente di quello di Abele.

E dunque, come ci veniva detto all’inizio, per seguire Cristo e Lui soltanto, non dovremo allora sbandare né a destra e né a sinistra. E non ci basterà la compagnia di una considerazione apprensiva ebbene allora dei demoni, dei cani e dei porci, e delle belve, delle fiere in cui i demoni pur si rappresentano, ma dovremo riscoprire quanto prima la rettitudine di quel sostegno angelico che poi però passerà alla nostra sinistra col passaggio alla nostra dignità ultima. Riscoprirla col senso davvero chiaro e, disarmante, di questo testo forte e sublime. Dove c’è l’Evangelo della nostra speranza, della gioia di un senso ritrovato.

di Alcuino di York

 

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